Roma, Teatro dell’Orologio

29 marzo 1999

Giulio Cattaneo, Alfonso Berardinelli, Michele Gulinucci, Maria Claudia Scotese e Stefano Velotti presentano il libro di poesie La Conversazione di Marina Mariani



Giulio Cattaneo

Marina Mariani, come lei stessa riconosce, non ha avuto una vera formazione letteraria: dopo il liceo ha frequentato per due anni corsi di fisica e si è laureata molto più tardi con una tesi di psicologia. Ma ha letto sempre libri di poesia con particolare predilezione per quelli inglesi e americani. All'origine delle sue letture poetiche troviamo l'Antologia di Spoon River che, pubblicata nel 1915 è stata, trent’anni dopo, in Italia, uno dei testi che più hanno colpito l'immaginazione dei ventenni del '45 con influenza sulle liriche dei giovani del secondo dopoguerra come attesta, fra l'altro, La sabbia e l'angelo di Margherita Guidacci. Fra i nostri poeti più amati spicca, oltre al Pascoli, Montale, soprattutto l'autore di Satura, del Diario del '71 e del '72 e del Quaderno di quattro anni. Da aggiungere Pasolini, Caproni e la Morante del Mondo salvato dai ragazzini, per citare qualche esempio. Nomi riemersi da tanti colloqui che risalgono alla metà degli anni Cinquanta, quando ho conosciuto Marina,mia collega alla RAI, che veniva a trovarmi in ufficio,molto timida, facendomi leggere qualche sua poesia e così è stato anche in seguito. Non sono mancate da allora pubblicazioni su riviste letterarie, almanacchi e antologie, ma questo è il suo primo libro, con una scelta di composizioni dal '62 al '91, in un prevalere di testi fra gli anni Settanta e Ottanta. I poeti ricordati poco fa non hanno comunque lasciato tracce visibili nelle liriche della Conversazione, dal titolo adattissimo a questa raccolta di versi intonati a modi colloquiali. Forse soltanto Montale, del quale non si notano influenze precise di lingua e stile, traluce in qualche composizione, appena appena nella chiusa di "In Francia s'erano rifugiati tutti i Franceschi": "Ci fu un gran traffico quell'anno/ alla frontiera", ma è un'inezia, e nel primo paragrafo del "Gioco dei paradigmi".
Il libro si divide in cinque parti, non secondo un ordine cronologico, perché si alternano poesie di data diversa, né tematico dato che le sezioni assumono il titolo di una singola poesia. Ricchissima è la varietà dei motivi: si va da scene colte all'aperto, incontri casuali, sogni, a rapporti con gli amici, a figure misteriose uscite da storie e leggende, all'attesa di una invitata, cani e gatti, le carte da gioco, sprazzi di memorie infantili, i giochi e le feste, gli astronauti, l'attenzione ai giovani e ai bambini, le visioni e le fantasie cosmiche, per ricordare solo qualche esempio. Le poesie hanno varia misura: brevi, di media lunghezza e strutturate in sequenze poematiche.
Da una parte, quindi, la capacità di concentrare in pochi versi una impressione, un collegamento, un richiamo e dall'altra, attraverso libere associazioni, una serie di passaggi poeticamente suggestivi in una mescolanza di particolari realistici e di simboli, significati multipli di un evento, baleni di un film come in "Donne al forno" e le invenzioni dal vero insieme a elementi fiabeschi, nei trapassi dal tramestio incalzante dello sgombero al baule abbandonato in soffitta e a un gioco di ragazzi in un paese ciociaro nel "Quattro di maggio", giorno dei traslochi a Napoli dove Marina è nata e ha vissuto per otto anni.
Nelle composizioni brevi si ricorre di rado, ma felicemente quando avviene, all'uso della rima e anche della rimalmezzo. "Tengono dritta in grembo la borsetta nera/ con la cerniera, emblema di rispettabilità". "Parlano — chi lo sa —/ delle figlie che stanno al mare." "Sospirano: che croce,/ la città." Oppure: "Nel ritratto che traccio di te, perché resti,/ hai occhi di fuoco, e nella mano/ ben,strette, pronte all'uso,/ un mazzo
di saette." Versi di poche sillabe, a volte con un richiamo tradizionale nei settenari, endecasillabi, esametri e paraggi, ma di solito perfettamente liberi, ora frammentati anche in parole sole. Così le liriche possono essere composte di frantumi, ma anche avere un respiro protratto in un largo movimento ritmico come in "Poesia all'aria aperta".
Marina parla spesso in prima persona come nel delizioso autoritratto "Esame della vista" che apre il libro, ma non sempre il parlare in prima persona è riferibile a sé stessa: risulta subito dopo in "La tombola degli asini" dove la sagra di Duino, così mossa e colorata, è nel racconto di una anziana profuga della guerra del'15, rimasta a Trieste e vissuta in un ricovero. Quando parla di sé stessa l'autrice rivela poco, a meno che non si tratti del suo passato infantile che ritorna più volte, con raccordi da una poesia all'altra, per esempio da "Quattro di maggio" a "L'Obbedienza" e a "Quando parlavamo" coi riferimenti alla storia tragica dei due fratelli.
I toni della poesia di Marina sono vari, da quelli leggeri, scherzosi, ironici ai freddi e desolati, di una angoscia sempre tradotta in immagini.
Spesso è un lungo percorso attraverso anni dell'infanzia e adolescenza, alternando le figure delle favole a frammenti di storia, utilizzando anche album di fotografie e passando in rassegna le glorie ufficiali, poi ribaltate e distrutte come in "L'Obbedienza".
La "storia-fiaba" è una definizione che si trova in "Stavamo tornando tutti insieme" ed è una formula che può applicarsi, si è visto, a questa poesia legata alla realtà, ma dagli esiti visionari e metafisici. Berardinelli ha rilevato che nei poemetti "l'autrice dà il meglio: dà tutto" e questo, oltre ai già citati, si può vedere in "Cancellazione e fine" e "La costanza dell'intenzione". Ma le stesse liriche in pochi versi, dalla prima sezione alla terza, in particolare, così lievi, attraverso le altre, raggiungono sempre notevoli risultati poetici. A queste si alternano le composizioni, anche lunghe, su un argomento solo, fra le quali,intensissima, "Quando parlavamo", nel dialogo col fratello "murato/ nella sordità, chiuso al rumore/ del mondo", nella faticosa scalata del muro/ due volte: il muro del mondo/ e il muro della tua sordità", in un "andirivieni" senza approdo che si risolve in amarezza.
Un elemento di grande risalto è il ritmo proprio di ogni componimento, che spesso incalza accumulando una quantità di atti: "Sgombrare - fare lo sgombero - traslocare/ fare spazio - eliminare il superfluo/ chiudere tutte le porte- impedire l'accesso./ Mettere fiori nei vasi – sopravvivere / acquistare cibo - fare scorte - prepararsi all'assedio./ Aprire uno spiraglio con circospezione/ lasciar entrare gli gnomi - frequentare i boschi - invitare gli amici.” Oppure, elencando frutti e fiori insieme a un suono, un fruscio, un frullo: "Ma come portare le fragole, i ciclamini,/ le more, i fichi dell'albero, / le nocchie, le foglie di platano, l'alloro,/ anche una dalia trionfante e paesana, / un ramo di biancospino, una ghianda, / muschio per il presepio, un uovo caldo,/ il belato dell'agnello, il fruscio della serpe;/ dove metto l'oscurità, i rumori notturni, / quale baule è pronto per accogliere/ le voti irate, le minacce ... i pipistrelli... i fantasmi."
Poesie spesso percorse dalle folate della storia di mezzo secolo con le note in parte rasserenanti dei finali “auguri per il Capodanno": "La tua presenza mi onora", "Carnevale", "Auguri per il Capodanno" e "Nella casa i bambini", mondo a sé, "tutto perfetto", incantevole.
Nella Conversazione non mancano, vi ho accennato, riferimenti a film come Diario di una schizofrenica di Nelo Risi in "Donne al forno", e giustamente Berardinelli ha osservato che l'autrice rivede "come in un film le sue visioni più confortanti e quelle più allarmanti". Del resto Marina ne è consapevole se in "Quando parlavamo" ha scritto che, intorno al dialogo così difficile e carico di dramma e tenerezza) tra fratello e sorella, "scorreva il nastro filmato del mondo".
Non sempre la poesia di Marina è chiara e intelligibile, ma non è il caso di chiedere delucidazioni all'autrice che si sottrae giustamente come tutti i poeti. Ricordo che sull' illusione di decifrare completamente la poesia ha risposto con esattezza Montale in una lettera a Silvio Guarnieri: "se anche tutto fosse spiegato, tu resteresti a mani vuote".
Concludo con "Poesia all'aria aperta", del '68, luminosamente limpida, articolata, prima della chiusa, in un unico movimento di ventidue versi. Non c'è molto da chiarire sul significato di questa lirica trasparentissima dove le parole "che ci diciamo tutti, i discorsi che ci facciamo" sono proiettati negli spazi immensi, nelle "regioni immutabili" del cosmo, ma soltanto richiamare l'attenzione sui valori ritmici e la nitidezza delle immagini.



Michele Gulinucci:

Io vorrei parlare di una sola poesia della “Conversazione” che troviamo quasi in apertura del libro, è la sesta della prima sezione, s’intitola Donne al forno. Dico subito che non ne parlo per tentare di spiegarla: sulla spiegazione dei versi già Giulio ha detto abbastanza perché io mi ritragga anche soltanto dall’intenzione. Vorrei parlare di questa poesia perché
ribadisce la condizione psicologica ma anche fisiologica – le due cose vanno sempre insieme, mi sembra – di alcuni parlanti colti nell’atto del dialogo, nella loro attitudine alla conversazione. (…) Qui, in Donne al forno, come spesso altrove, i corpi sono corpi femminili e dialogano in attesa che il fornaio sforni il pane.
I cardini narrativi – anche simbolici, come sentirete dalla lettura integrale – sono due verbi all’infinito: aspettare e ricevere. Due parole che delimitano le due parti della poesia stessa, esercitano quasi un doppio patrocinio sulla poesia stessa. Aspettare e ricevere sono parole note specialmente alle donne, dice Marina, e lo ribadisce con un enjambement ripetuto a cadenza nella prima e nella seconda parte: parola nota / a noi donne di più. Aggiungo altri dettagli, ripeto, non a scopo chiarificatore, ma per preparare un minimo di aspettativa alla lettura integrale che spero Marina voglia poi fare. Dettagli tutti piuttosto trasparenti – fino a un certo punto – e quasi tutti ironici. Il forno-grotta dell’attesa, la grotta-evento, il forno-inferno, il fornaio Belzebù che ammicca alle donne sedute, il vetro appannato su cui qualcuno traccia col dito un SOS inascoltato e pochi altri elementi di narrazione. Pochi cenni narrativi per dire che è una storia ad alta densità di allusione, di rimando simbolico oltre che di racconto in sé: Una storia che, mi pare, stringe questo dialogo di corpi femminili che ci vengono rappresentati seduti sulla panca del forno attorno al mistero della gestazione e della generazione, alla diceria di questo mistero, di quello che si racconta, si sussurra, a cui si allude anche senza dirlo. Uso la parola mistero perché ricorre proprio nel testo.
(…) Aggiungo che il passo adottato da Marina,anche qui, anche in questa poesia e per la verità quasi dappertutto nel libro, è tutt’altro che grave: la presenza di questo mistero parlato dalle donne per lo più è una presenza ironica e rientra nella casistica delle storie in forma di favola – ne parlava anche Cattaneo poco fa – che la Mariani racconta, secondo Alfonso Berardinelli nella sua recensione su Liberal con parole enigmaticamente chiarissime. (…).
Quello che mi interessa sottolineare, quello che Donne al forno aggiunge o specifica della poetica della Conversazione è che qui lo spazio e la pratica della conversazione, assunti come dato naturale, originario, quasi con un dato di partenza sembrano invece sfumare nel loro opposto: abbiamo l’impressione, almeno io ho l’impressione di assistere non a un dibattito concentrato, rastremato, o meglio essenzializzato, ridotto a un monologo, ma si ha l’impressione di assistere a un prologo interrotto, pronunciato per di più da un luogo superiore, appartato, insomma non lì, e come in assenza dei personaggi del dramma, come in assenza dei personaggi che ci vengono descritti mentre parlano, e che quindi i corpi non siano più dove sarebbero se dialogassero effettivamente.(…) I due infiniti, aspettare e ricevere,restano non declinati nelle battute di questo discorso,che è un discorso di là da venire. Queste donne parlottanti sembrano disposte, forse anche composte, in un’attesa generica, benché bonaria, condivisa, con i sorrisi, i brevi rossori, quasi le allusioni comiche: c’è una stasi del corpo, ma anche dell’anima; ed è proprio anima la parola-perno, direi forse la terza in ordine d’importanza, su cui aspettare, primo cardine, ruota, oppure slitta, se preferite, e diventa ricevere. E’ come uno spiraglio, una via di fuga dall’attesa: solo che questo spiraglio si rivela chiuso. Chiuso come fosse un altro mistero, oppure lo stesso mistero, quello dell’attesa, della gestazione, della generazione, che però man mano si fa sempre meno bonario, meno confidenziale, e diventa un enigma drammatico. Ed ecco quindi che ci imbattiamo in questo SOS rigato sul vetro-diaframma, sul vetro-pelle, che nulla comunica, nulla significa, perché non è ricevuto: ed ecco ricevere. Questo tema, chiamiamolo maternale se volete, affiorerà ancora a tre versi dal termine, quindi percorre tutto l’andamento della poesia, per riprendere, coniugare alla fine, ma in negativo, come se avesse un valore privativo, come se ci fosse una a privativa lì davanti, per coniugare in conclusione di nuovo i verbi-cardine, aspettare e ricevere, e cioè non aspettare, non ricevere. Questo cordiale ritratto di donne al forno, ammiccanti, intime tra loro, questo loro corpo collettivo, che è così ben ritagliato – diceva giustamente Cattaneo – come in un film, soprattutto in questa poesia, richiama esplicitamente, almeno a me pare, l’invocazione di Emily Dickinson che Marina ha messo in epigrafe al libro, il verso che in italiano suona dovrebbe star sempre dischiusa, l’anima.
Concludo dicendo che Marina è bravissima a farci sorridere, a raccontarci storie con il suo passo leggero, che alleggerisce la narrazione, mentre racconta conversazioni o conversa con le storie, come preferite; Donne al forno secondo me fa intravedere il rovescio, forse il prezzo di una affabulazione tanto affabile.



Maria Claudia Scotese

La mia presenza qui stasera la dice lunga sull’atteggiamento di Marina nei confronti dei giovani, sul suo interesse verso la scuola e quindi verso la comunicazione. E questo, per la mia esperienza, non è un interesse a senso unico, dal momento che ho potuto constatare quanto la sua poesia abbia presa sui giovani, cosa molto rara perché parlare di poesia a scuola oggi è un’impresa veramente titanica, o per lo meno molto difficile. Allora mi sono domandata, anche su richiesta di Marina, quali siano gli elementi che rendono questa poesia accetta ad un pubblico giovanile, e quindi ho fatto alcune riflessioni. Quella più immediata è indubbiamente l’approccio fortemente narrativo di questa poesia: non a caso, per parlare di questa poesia è stata spesso usata la parola favola, e i termini favola, fiaba ricorrono anche molto spesso in questi versi; e si sa che la favola da sempre ha avuto un impiego didascalico molto comune. In effetti, il tono favolistico di questa poesia aleggia non soltanto sulle immagini di un passato che è continuamente rievocato, e che diventano dei veri e propri motivi narrativi: il baule nella soffitta, la borsa da viaggio della nonna, l’invitata che arriva alla villa, ma io trovo questo tono favolistico anche sulle tracce della nostra epoca, le facce che guardano il teleschermo, la strada verso l’aeroporto, l’autostrada, le aree verdi attrezzate dal Comune, eccetera; in una mescolanza continua di vecchio e di nuovo che non rinnega assolutamente mai la modernità, anzi la modernità viene continuamente accettata e fortemente vissuta. E’ un binomio questo, attualità e favola, che secondo me è sicuramente la chiave di questo successo della poesia di Marina presso i giovani. Marina è una narratrice affascinante, le storie di questa raccolta sono tantissime, e attraverso queste storie appare spesso la Storia con la S maiuscola, anche se i protagonisti di questa Storia ormai di maiuscolo non hanno più niente, anzi sono piuttosto minuscoli e sono ridotti quasi a personaggi di libri per bambini: il Duce col pennacchio, la Regina col petto largo, La Principessa, il Principe adorato eccetera. Tutto questo ridimensionamento, questa Storia piccola, sicuramente diverte e spesso piace e quindi giova a un approccio giovanile. Indubbiamente, ai fini della comunicazione giova anche questo linguaggio volutamente semplice, anche se, come è stato detto, spesso enigmatico; comunque, quello che conta è che sono parole sempre prese dal quotidiano, come del resto molte immagini di questa poesia, che comunque, diciamo, a un lettore ancora non molto esperto è sicuramente familiare. Vorrei, per esempio, che Marina leggesse la poesia I miei amici, che è quella che ho inserito nell’ antologia.






Mi sembra che, tra tante, è quella che ha l’inizio più rassicurante: I miei amici; il linguaggio è quello colloquiale, quotidiano, tipico di questa poesia, e non presenta assolutamente alcun problema dal punto di vista della comprensione; forse l’unico problema, è quello dell’ultima strofa, la metafora dell’ultima strofa: però, a guardar bene, anche qui le parole usate sono da una parte prodigio e favola, dall’ altra geometria, parallele, punto all’infinito. Quindi, ancora una volta, da una parte abbiamo il mondo della fantasia, dall’altra una materia scolastica, la geometria, quindi sono termini che nel mondo della scuola sono molto conosciuti. Questo è il motivo che mi ha fatto scegliere inizialmente questa poesia. La poesia è stata inserita in una sezione che si chiamava I Rapporti con gli altri, per questo suo presentare al negativo un tipo di rapporto molto familiare ai giovani, legato all’agire in gruppo, allo scambio di cose, al fare delle cose insieme. Lo stupore, in un giovane, sopravviene di fronte all’ossimoro continuamente ripetuto I miei amici non: non mi cercano, non m’invitano, non mi telefonano: una serie di inadempienze, queste, che sicuramente sono in contraddizione con il concetto di amico. Però è attraverso questo stupore che può insinuarsi un’idea dell’amicizia che è contraria allo stereotipo, un’ amicizia fatta di modi diversi di mettersi in relazione, è fatta sul riconoscersi, sull’autocoscienza di una sensibilità comune e quindi non necessariamente legata alla vita di tutti i giorni. Arriva comunque un messaggio, ma per far questo Marina rinuncia al discorso paludato, rinuncia all’affermazione categorica e sentenziosa – non per niente, sentenzioso per lei è il Grillo Parlante - : Questo a parer mio è un importante tramite per arrivare alla sensibilità giovanile, verso cui lei ha, mi pare, sensibilità particolare. Gli stessi elementi li troviamo nella poesia Sport e cronaca.



Su una scena assolutamente familiare e conosciuta – le solite due nella confusione dei saldi estivi – s’instaura il paradosso: non acquistano, non partono: anche qui quindi la contrapposizione di due modi di vivere: ha girato frettolosamente il volto, cercando certezze di gare, la bella donna; farà la giornalista, hanno detto, e si sono dirette verso le case. Ma questa volta il gioco è scoperto: l’animo colmo di previsioni e predizioni / di un giornalismo migliore. Anche qui, il sospetto che la scelta tra due modi di vivere non sia propriamente scontata. Per concludere, io penso che ciò che rende questa poesia adatta ai giovani sia l’adesione di Marina al mondo giovanile. Marina esibisce con soddisfazione la sua anzianità, ha cominciato a dirsi anziana molto presto però questo non significa per lei vedere il mondo dei giovani contrapposto; l’ironia che pervade un po’ tutta la sua poesia difficilmente viene usata lì dove si parla di giovani. Il tono, quando si parla di giovani, è sempre un tono attento, forse indulgente, qualche volta austero, ma non è mai un tono ironico. E, questa è l’ultima cosa che ti chiedo, vorrei leggere a questo riguardo, emblematica per il tuo atteggiamento verso i giovani, una poesia che io amo moltissimo, A Roma, verso il Ghetto.





Nessun intento moralistico o didascalico nei confronti dei giovani che non conoscono i nomi delle strade, anzi si ha l’impressione che la nostra autrice pensi che quei bambini issati sulle spalle, quelle nuvole di suoni, siano cose ben più concrete di cui occuparsi. In realtà non è così, ma chi lo sa… I giovani, che sono da sempre rassegnati a questa frattura col mondo degli adulti, qui hanno il ragionevole dubbio di essere nel giusto, che qualcosa del loro mondo è stato capito; e nello stesso tempo hanno la visione di un mondo in cui si conoscono i nomi delle strade, magari dei personaggi a cui queste sono intestate, e si riconoscono i luoghi e le tracce della Storia. Ecco, le poesie di Marina, almeno quelle che io ho scelto per i giovani, vivono su questa ambiguità, sulla presentazione di un modello che rifiuta di essere un modello, e sulla constatazione, non sull’affermazione, del diritto di esistenza di vari modi di vivere.
Marina ha raccontato in un’intervista radiofonica dell’origine autobiografica di questa poesia:racconta di aver visto un giovanottone con un bambino sulle spalle, che si chinava gentilissimo alla richiesta di una signora, probabilmente un’informazione sulla strada; e lei aveva pensato “Questo non ha la più pallida idea di dove si trovi” E infatti il ragazzo non era assolutamente in grado di rispondere… in quel punto di Roma che invece per lei aveva tanta Storia. Ma, aggiunge subito, “non per colpa sua… Non era assolutamente presente” Ecco, non era presente. Non era secondo lei, a fuoco in quel momento sullo sfondo della Storia passata che forse quasi non gli compete. I giovani sono guardati da lei sempre così, un po’ da lontano, con ammirazione, e assolutamente senza invidia. In un’altra poesia sempre dedicata ai giovani , Improvvisamente la città si è popolata di figli , Marina dice: Ragazzi con stendardi o giocattoli si spostano impavidi / di quartiere in quartiere ,mentre noi – gli anziani – senza malinconia afferriamo il quotidiano bastone / e Se camminiamo, possiamo incontrarli.



Stefano Velotti


Negli anni, Marina mi ha dato tante poesie, che andava scrivendo, che tirava fuori dai cassetti, in tanti anni, almeno quindici anni, non so; e queste poesie – me ne sono reso conto, leggendo i titoli – sono entrate a far parte del mio sentire, del mio modo di vedere. Doverne parlare è ancora più difficile, da questo punto di vista; e ho trovato una poesia che ancora non avevo letto o che non avevo assimilato, che Cattaneo ha citato più volte: Quando parlavamo / e intorno scorreva il nastro… eccetera, che poi chiederei a Marina di leggere; e cercavo di formulare un’ipotesi su quale fosse l’unità di questo libro. Marina ha un materiale a volte prezioso messo da parte, sia in versi che in prosa, che in quasi-prosa.
Ha dovuto mettere insieme un libro, e ha fatto questa scelta. Poteva essere una scelta diversa tra le tante possibili, ma è questa. Nonostante tutta la molteplicità di temi, di registri che sono stati ricordati proprio stasera, la frequentazione di tutte queste poesie che mi sono portato in giro per anni, ha fatto sì che per me sia una voce inconfondibile: io credo che riuscirei a riconoscere una poesia di Marina nuova, o che non ho mai letto.
E allora qual è l’unità di questo libro? Io credo che in questa poesia, Quando parlavamo, se non proprio l’unità venga fuori almeno una componente di questa unità, e comunque un elemento imprescindibile, in parte inaspettato, ma nemmeno tanto, perché in tutte le recensioni che ho letto, in quasi tutte, compare una parola che è violenza ,crudeltà,
ferocia, il che sembra inaspettato perché il tono di Marina è amabile, giocoso. Queste parole tornano continuamente, e quindi è qualcosa che in effetti i suoi lettori avvertono. In particolare, c’è una frase che Marina stessa credo abbia scelto, d’accordo con il suo editore, da mettere sul segnalibro. Dario Bellezza scriveva:”Le sue poesie io le trovo tragiche e crudeli, anche se tessute sull’ironia. Raccontano la storia di una donna violentata dalla poesia, che non riesce a tradire la sua vocazione.” Alfonso Berardinelli scriveva: “Crudeli ed esilaranti effetti buñueliani”… eccetera. Questa violenza che la poesia avrebbe esercitato su Marina, è soltanto un modo alternativo di dire che Marina ha una grande vocazione per la poesia, che la poesia l’ha investita in pieno? Io non credo che sia solo questo. Ed anche l’aggettivo crudele, è soltanto perché Marina possiede uno sguardo puro, non innocente, notava Gulinucci, per cui lo sguardo puro di fronte all’impurità del mondo si fa necessariamente crudele? E’ solo questo, oppure invece queste poesie più tormentate nascondono una vera e propria violenza subita e anche restituita nella poesia, restituita con tutti i suoi armonici, diciamo, non escluso persino una sorta di risentimento(…) Mi sembra che Marina tenga aperta questa conversazione a cui è intitolato il libro, che in qualche modo enuncia una unità contraddittoria, piena di contrasti , quando si può porre nei confronti del suo oggetto, del suo interlocutore – oggetto, animale, persona – in maniera impari, o dal basso o dall’alto: o assumendo una voce infantile, fintamente ingenua, ma in realtà pura, oppure assumendo uno sguardo più distaccato, non moralistico certo, ma che giudica, che giudica il mondo. Quando si stabiliscono le condizioni di un vero dialogo, di una vera conversazione, alla pari, franca, senza questo spostamento di piani, in realtà la conversazione s’interrompe, diventa impossibile: il dialogo s’interrompe e si passa alla violenza, all’impossibilità del dialogo e quindi, se volete, alla violenza. Bene, la molteplicità dei registri e dei temi è stata già illustrata; in particolare, c’è quello dell’attesa che fa il paio con quello dell’affrettarsi: l’attesa per qualcosa che deve arrivare – l’invitata arrivava-arriva-arriverà e quando va via ci si rimane / così-così – si aspetta qualcosa, una pienezza che non viene; ci si affretta perchè si ha paura di perdere l’occasione di questo qualcosa; ma, dice Marina in un’altra poesia, qualcuno dice che siamo infelici, noi poeti, perché seguiamo di ramo in ramo questo qualcosa che non riusciamo ad afferrare, l’albero, per così dire. Oppure – e questa è una nota di negatività che percorre gran parte della poesia del Novecento, in particolare anche Caproni - il Dio aspettato alla stazione: Lui burlone, che non si fa prendere .C ‘è quindi quest’attesa, questo qualcosa che sfugge, questo affrettarsi per non perderlo; ma l’essenziale, ciò che bisogna dire, fugge di ramo in ramo come un passero.
Poi, i registri: scherzosi a volte, giocosi: In Francia s’erano rifugiati tutti i Franceschi / condannati a morte in Germania / perché non si chiamavano Germano …eccetera; registri invece cupi, amari. Ma allora, dov’è l’unità. Questo giocare, che spesso torna, assume il tono della canzonatura - in genere non amo le acrobazie etimologiche, ma è curioso che canzonare volesse dire un tempo comporre in versi, cantare in versi, e adesso vuol dire prendere in giro. Per esempio nella poesia che è stata letta, molto bella, Sport e cronaca, è una canzonatura doppia, sia per la bella donna sportiva, sia anche per queste donne a cui la voce che narra è più vicina, ma non è la stessa voce di queste donne, c’è uno scarto, e questo scarto, l’essere un po’ più piccoli, o un po’ più grandi di ciò di cui si dice, è una forma di canzonatura amabile, ma, appunto, ironica, oppure amara: non direi di sufficienza, ma insomma uno scarto c’è. Quando accade che c’è un evento che la coglie in piena faccia, e non può scartare né in alto né in basso, che succede? Queste conversazioni, mi sembra, diventano impossibili. Per esempio, la poesia che precede quella che sto per chiedere a Marina di leggere, quella su un gatto che se ne frega: intanto è un gatto, se un cane può tradire, figuriamoci un gatto! Un gatto che proverbialmente è sordo alle nostre richieste; questo inoltre è un gatto sordo, quindi doppiamente sordo, sordo e ingrato. La poesia finisce in questo modo:così non posso comunicare, non comunico / gatto che te ne freghi. Ecco che si rivolge direttamente a questo gatto, e la comunicazione è interrotta.
Questa poesia del gatto a me è sembrata quasi un’allegoria della poesia che ora Marina leggerà, che a sua volta è un’allegoria. Insomma, questa del gatto è come se fosse una sintesi o una visione d’insieme che precede questa poesia più complessa, che ora pregherei Marina di leggere.








La poesia si apre al passato:Quando parlavamo – e intorno scorreva il nastro / filmato del mondo – e noi parlavamo, / pur se con qualche inciampo in fin dei conti era un dialogo:/
(…) Questo ricordo, che dovrebbe rimandare a un dialogo poi perdutosi, in realtà è pieno di dubbi, ed era un dialogo strano, perché chi parla, l’io della poesia, era l’orecchio di chi ascoltava, del tu; era stato come assimilato ad un suo organo. Insomma, non c’è vero dialogo fra se stessi e il proprio orecchio; questo io portava, è vero, le voci diverse, e il canto degli uccelli, ma soprattutto era costretto a filtrare il rumore del mondo. Tu murato :nella sordità, chiuso al rumore / del mondo, volevi che lo penetrassi io, questo rumore .
Gli si chiede di filtrare il mondo, all’io; dalla prospettiva, però, della sordità: il mondo è solo un nastro filmato che fa rumore; di penetrare questo rumore, di penetrare anche la sordità e come se non bastasse, di riportare (magari un poco frantumata) quell’esperienza / quella notizia dal MONDO / (una parola, per due bambini,rotonda / e non poi così densa di significato). Dal MONDO, se vi ricordate, è scritto in maiuscolo: la rotondità del mondo non è solo fonica, ma è anche vista in questo modo: per i bambini il segno e l’immagine sono quasi la stessa cosa, e non è così densa di significato, non perché sia insignificante, ma perché si esaurisce tutta nella sua rotonda apparenza, non ha dentro di sé una densità. E’ quasi una parola concreta, insomma. E in questa parola mi sembra quasi che la poesia subisca una trafittura, uno scarto, dove si riaffaccia veramente una felicità perduta, solo ricordata, la pienezza inconsapevole dell’infanzia; ma è solo un momento, solo un ricordo immaginato. Su questa pienezza, sulla normalità dell’andirivieni si insinua la fatica: per me era normale, quell’andirivieni, / quella faticosa scalata del muro / . E si ripete, a questo punto con maggiore, allarmante incertezza:allora il dialogo c’era, il futuro / si costruiva, il futuro solo ricordato, bisognerebbe dire, si costruiva. E infatti la seconda parte, o strofa, di questa poesia, comincia: Io mi ricordo. Che cosa si ricorda?: Dei libretti delle opere, il tu riteneva le parole, ma sbagliava le arie; mancano, come dire, il canto, i suoni, gli odori delle parole; rimane soltanto la parola del libretto, ma non le arie. Poi s’affievolisce anche questo filo solitario, questo filo / di voce tutto tuo. E qui secondo me c’è la chiave di volta della poesia, quella che dovrebbe sostenere, credo, la mia ipotesi, appunto: e incaricasti me. Un incarico terribile, perché è l’incarico di ridurre a poche comuni parole il frastuono / che intorno andava montando, cresceva. Allora, la poesia è questo farsi carico, questo sopportare il carico di frastuono del mondo, un mondo in guerra, per di più, per ridurlo a poche, comuni parole, cioè all’essenziale. Mi ricordo che Calvino diceva: ”Far passare il mare in un imbuto”. E’ un po’ questa la costrizione a cui va incontro la poesia. E poi l’io prosegue dicendo di cosa è fatta la poesia, le sue parole esemplari: Cercavo esempi, nei vecchi giochi, nelle figurine dei calciatori e delle dive, nell’odore del cioccolato stantìo, come per ridare vita a quel mondo tutto tondo, dove immagine e segno sono immaginati ancora uniti, e il senso delle cose nel ricordo appare pieno. E nel far questo – queste sono le operazioni della poesia – m’affannavo a confrontare, / a ridurre, a paragonare. Questo affanno deriva da quell’incarico ricevuto, ma ricevuto non come un dono, una vocazione; (…) Qual è l’incarico ricevuto? Fare arrivare ai sordi una parola essenziale, perché loro ci hanno dato questo incarico, ma sono sordi e non ci ascoltano. Il muro del mondo, il suo frastuono, la sua infinita, crescente complessità, ridurla a una parola essenziale per offrirla a chi ce l’ha richiesta e che tuttavia non può, o non vuole, ascoltarla. E nell’ultima strofa – terribile – si mette in dubbio consolo l’utilità, dopo un certo periodo, di questo lavoro,a addirittura la realtà stessa di questo lavorìo, perché si dice: ma so che l’andirivieni / che ripeto per perversa / abitudine non ha approdo. Perchè è perversa quest’abitudine? Perché dubita di essere quasi una coazione a ripetere: cioè dubita non solo di non essere un dialogo che in fin dei conti lo era, ma di essere una coazione, un’abitudine perversa. Ecco che questa poesia, nell’ipotesi che ho cercato di dare a me stesso e di esporvi, si rivela a come un incarico datole da chi non la può ascoltare e che però le chiede al tempo stesso crudelmente di affrontare il frastuono del mondo e di ridurlo all’essenziale, all’essenziale che sfugge sempre di ramo in ramo, su cui si arriva sempre troppo presto o troppo tardi, (attendere, affrettarsi). Tutto qui. Forse è questo il senso, me lo chiedo, da dare a quel “violentata dalla poesia”: non come vocazione felice, positiva, (con tutti i contrasti che naturalmente questa vocazione può portare) ma quasi come una violenza subita di cui si restituiscono in parte, a ondate, nella chiusura della comunicazione, gli effetti.




Alfonso Berardinelli


Io a questo punto sono in imbarazzo, perché ho sentito molti spunti di interpretazione interessantissimi , affascinanti e molto partecipati, non noiosamente professorali, ma che mostravano il coinvolgimento e anche il rovello: quando Velotti ha cominciato a dire “non so se questa cosa si capisce, io stesso non la capisco”: questo è magnifico, perché mostra in pubblico, gli incerti rovelli interpretativi in cui ogni lettore può imbattersi, e dà quindi un senso di realtà. (…) Ci siamo comportati tutti come lettori: ed io sono il più umile dei lettori, in questa serata, anche perché ho scelto di sentire prima tutti gli altri e, avendo seguito il lavoro di Marina Mariani per molti anni, avendolo sempre apprezzato nel modo più semplice: “Senti, avrei scritto tre poesie. Hai tempo, te ne posso leggere una?” “Sì, leggimela.” E allora, la leggeva, la sentivo, spesso mi pareva bella, quasi sempre, devo dire perché non leggeva mai cose che non fossero già passate sotto la severissima autocritica che lei esercita su se stessa. E allora, dato che io ho fatto un’antologia in cui era inclusa, quell’antologia Einaudi dell’82, recentemente una recensione e anche una presentazione in libreria, questa sera avevo anche un po’ voglia non dico di riposarmi, ma di far parte più del pubblico che del palco, e quindi mi considero il primo a intervenire del pubblico più che l’ultimo delle persone che hanno parlato finora.
E d’altra parte, ho anche una gran voglia di leggere alcuni di questi testi, perché mi piacciono proprio e quindi mi piace leggerli anche a voce alta. Ho sentito quello che è stato detto: per esempio, una cosa che non ricordavo, che per Marina è stata importante la lettura dell’Antologia di Spoon River. Ebbene, questo si vede, perché per far vivere dei personaggi in poesia bisogna avere la capacità di vederli anche un po’ da una sorta di al di là: mai sono così vivi come quando sono rievocati da una memoria che teme di perderli per sempre. Poi, le altre letture: Pascoli, Montale, l’ultimo Montale di cui dice sempre che è il suo poeta preferito, Pasolini, Caproni, che ama moltissimo, a cui ha dedicato una breve, credo inedita ancora, sequenza, un omaggio di un poeta minore – dice lei, si definisce così, (e così stiamo tranquilli) ; e poi mi veniva di notare che c’è stato un rapporto di sintonia con Elsa Morante, pur non essendosi mai conosciute M.M. con Elsa Morante. Iole ho conosciute entrambe posso essere testimone di questa strana comunicazione, tele-comunicazione, da lontano. Elsa Morante apprezzava le sue poesie, mi consigliò di leggerle, e io ho cominciato a leggerla e …siamo qui, sono passati moltissimi anni e non ho più smesso. Ora, alcuni poemetti di M.M., chiamiamoli ideologici , e bisognerebbe intendersi sul termine ideologia: un poemetto, di per sé, non può non essere un po’ ideologico, perché una costruzione poetica un po’ più ampia richiede alcune idee, non ha bisogno soltanto di certe immagini, di certi lampi, intuizioni, belle mosse stilistiche, di alcune felici clausole, belle aperture, ha bisogno di qualcosa di più sostanzioso e io, non dico di preferire le poesie più lunghe della Mariani, ma volevo sottolineare che in effetti non vanno mai perse di vista: guai al lettore che, vedendo di dover leggere tre o quattro pagine di seguito venga preso da un attacco vergognoso di pigrizia, perché lì trova i testi fondamentali, proprio per la loro struttura che non è estranea alla mentalità di Marina, la quale ragiona, ragiona molto, non è poeta di emozioni, di pure leggerezze, di scherzetti, o di brevi storie, o di quadretti spiritosi, o di poesie godibili e anche commoventi ma che si risolvono in un breve giro; tende a concepire e a esprimere una generale interpretazione perfino di interi periodi storici, poi scherzandoci sopra, drammatizzando e comicizzando, cioè prendendo tutti i punti di vista che è necessario prendere per raccontare delle vicende così vaste che nessuno può naturalmente pretendere di possedere nella loro interezza. Nei poemetti io ho sentito una certa influenza dei saggi di Elsa Morante, non tanto della sua narrativa, quella più nota; dei saggi, quelli pubblicati da Adelphi in Pro e contro la bomba atomica, che sono brevissimi e potrebbero anche essere considerati dei poemetti in prosa, dei poemetti ideologici in prosa, e c’è in effetti qualche somiglianza con le poesie lunghe di M. M.
Per quanto riguarda i suoi rapporti con i giovani, di cui sono state dette delle cose giuste, (il suo farsi un po’ più anziana eccetera) , io penso che una delle attrattive (mi pare di averlo capito stasera) è che in realtà nella sua poesia sono presenti non so se tutte le età, ma certo molte età umane: è presente l’età infantile, è presente l’età senile, è presente la smarrita e velleitaria maturità, con quel tanto di fatuo che c’è, contrariamente a quello che si crede, nell’età matura, (in cui si occupa il centro del mondo, ci si propongono delle cose serie, si cerca di raggiungere degli scopi eccetera). Ma Marina poi fa subito sentire quelle altre voci che nullificano, ridimensionano le ambizioni dell’età matura. Mi pare che questa pluralità di punti di vista, che è anche capacità di immedesimarsi in diverse età, sentendo in sé il vecchio e il bambino, il maturo-immaturo, il maturo che teme il passare e che ricorda la felice infanzia, (o l’infelice infanzia), abbia dato proprio degli spunti anche stilistici, renda così attraente la sua poesia, che suona spesso come stranamente saggia, e insieme linguisticamente un po’ infantile, sillabata, come se dovesse essere pronunciata di fronte ad un pubblico che ha bisogno, direi, fisiologico, elementare di verità elementari.
La Conversazione. E’ interessante il discorso che faceva Velotti un momento fa sulla sordità. Io, sfruttando le cose che lui ha elaborato, vorrei dire che probabilmente questa è forse anche la metafora, l’allegoria della quasi inevitabile, fatale sordità degli altri, di tutti gli altri nel momento in cui meno ne avremmo bisogno, nel momento in cui noi avremmo bisogno dell’ ascolto e abbiamo invece la sordità. E quindi, la conversazione, in un certo senso, è per definizione la poesia, almeno questa – potrebbe anche essere qualcosa che ha che fare non dico con tutti i poeti, ma con molti poeti - : è ciò che nasce dall’impossibilità, dall’incapacità se volete uso un termine più comune, dalla frustrazione di non essere riusciti a portare a termine la conversazione fondamentale nel momento in cui sarebbe stato fondamentale portarla a termine, e quindi convincere l’altro, dire tutto quello che avevamo in corpo, essere chiari quando serviva essere chiari, non essere reticenti. Quindi La Conversazione è questo utopico residuo che emana dalla infelice comunicazione degli umani e che crea una specie di nuvola sulle nostre teste: è quella conversazione che avremmo dovuto avere e che non siamo riusciti ad avere. Nessuno scriverebbe se fosse soddisfatto delle proprie conversazioni. Si scrive perché siamo insoddisfatti delle nostre conversazioni. “Gli potevo dire quello”, “Non m’ha detto quell’altro” e quindi…
La conversazione perciò è davvero quella luna, quell’astro dove va a finire tutto il senno perduto, quel luogo dove vanno a finire tutte le cose che non siamo riusciti a dire; è una specie di utopia della comunicazione umana, e quindi M.M. può servirsi molto felicemente dell’attitudine, dello stile, del tono che le è proprio, e cioè di poetare come conversando, sapendo però che questo conversare è un poetare, e che risarcisce e fissa e conforta per una conversazione fra sordi che non è riuscita ad avvenire: sordi con tanto di orecchie, naturalmente, come siamo tutti noi, che potremmo sentire tutto, ma sentiamo solo alcune cose.
S’ è parlato, poi, della fiaba. La fiaba mi sembra che sia la soluzione che viene naturale quando ci si muove, come Marina, tra due dimensioni: quella umile, della cronaca – molte delle poesie partono come una cronaca, sono la cronaca di una giornata eccetera.. e poi dei sogni: l’attività onirica ha un certo ruolo, mi pare, nella poesia di Marina, ha un ruolo notevole. E allora, che cosa avviene nell’incontro tra il proposito di scrivere una cronaca e l’interferenza onirica sul significato e la struttura narrativa di una cronaca? Ne viene fuori qualcosa che somiglia ad una favola. Perciò, questo tipo di conversazione in cui si cerca di fare della cronaca, si cerca di farla di fronte ad ascoltatori che non ci sono più, o sono assenti, o dovrebbero esserci e non ci sono, permette a Marina di parlarci e di parlare a se stessa in un modo che dà il privilegio di fruire di qualcosa che a lei è costato forse un po’ più che a noi, questa bella conversazione ce la regala forse perché lei non è riuscita ad averla, l’ha creata linguisticamente in queste poesie e ce la offre come un’ipotesi confortante. Vorrei sottolineare infine la capacità di sintesi di alcune poesie, come questa che leggerò.