Libreria Montecitorio - Roma

2 maggio 2000

I Quartieri dell' anima
Enrico Benaglia in viaggio con i poeti
- di Gabriella Sobrino

Filippo La Porta presenta Marina Mariani





Buonasera. Generalmente io mi occupo di narrativa, di nuova narrativa italiana, ahimè... Libri di poesia ne leggo abbastanza pochi, di poesia contemporanea. Diciamo che per Marina Mariani vorrei cominciare con una premessa, una premessa lievemente eccentrica, poi entreremo nel merito. Leggendo le poesie di Marina Mariani mi è capitato di interrogarmi di nuovo sull' attualità della poesia, sulla possibile vitalità del linguaggio poetico oggi. Non è così scontata, questa vitalità, questa attualità del linguaggio poetico. Sapete che già negli anni Trenta e Quaranta Edmund Wilson diceva che il verso è una tecnica in via di estinzione: proprio perché alcuni generi letterari possono consumarsi, possono perfino estinguersi. Quindi per me non è un interrogativo tanto ozioso questo sulla vitalità possibile del linguaggio poetico, e anche sulla possibilità di leggere poesie oggi. Spesso mi chiedo com'è possibile dedicare alla lettura di versi quell'attenzione, diciamo quell'attenzione del cuore e della mente, quell'ascolto paziente, in una realtà che è caratterizzata sempre di più come sapete da un certo ingorgo linguistico, da un eccesso di messaggi, da una simultaneità di informazioni. Ora, la mia esperienza di lettura di queste poesie, - io già conoscevo altre poesie di M.M. - mi porta ad una prima, molto provvisoria, conclusione. Questi versi, o almeno, una parte di questi versi, risuonano dentro di me come quasi dei koan buddisti: sapete, quegli enigmi senza soluzione; risuonano dentro di me come piccoli congegni speculativi, di illimitata potenza. Questo può sembrare contraddittorio, perché uno pensa alla poesia come a qualcosa che è simile al canto, alla cantabilità; e invece io vi sto parlando di speculazione. C'è una poesia di M.M. che vorrei leggervi subito perché mi serve per chiarire quello che tenterò di dirvi, tratta dall'ultimo suo libro, Il gioco delle costruzioni edito da Quasar.

La tentazione è - uscire dal cerchio
la tentazione è - rimanere nel cerchio

la tentazione è - muoversi avanti e indietro
sulla circonferenza

la tentazione è - rimanere immobili
al centro

la tentazione è - ignorare il cerchio
la tentazione è - inventarsi un altro cerchio

la tentazione è - scavare una buca
e sotterrare il cerchio

la tentazione è -parlare del cerchio
la tentazione è - dare tutta la colpa
al cerchio

la tentazione è — implorare la salvezza
dal cerchio



Ecco, questa poesia io me la sono riletta tante volte, ho anche tentato di impararla a memoria, vanamente, non ce l'ho fatta per oggi, e mi serve per chiarire meglio quello che voglio dire: che queste poesie sono dentro di me come dispositivi intellettuali, che a un certo punto implodono con delle conseguenze impreviste. Queste poesie sono pensiero concentrato, sono pensiero contratto, diciamo, caparbiamente interrogante, infatti continuano a risuonare dentro di me e a interrogarmi continuamente. Insomma, la poesia oggi - la migliore poesia, non tutta quella produzione poetica di oggi scritta con un linguaggio molto pretenzioso, molto vacuo su cui tanti critici sono giustamente molto severi - la migliore poesia oggi mi appare come un modo particolarmente efficace di fare filosofìa. (...) Con tutto il rispetto, proverei perfino a ribaltare il famoso schema, quello di Hegel, quello che ci hanno fatto imparare a scuola, per cui la forma superiore dello Spirito assoluto era la filosofìa, per cui c'era: la Poesia, la Religione, la Filosofia. Ebbene, io lo ribalterei: al primo posto, come forma superiore dello Spirito assoluto, io metterei appunto oggi quella forma che è insieme rappresentativa e concettuale che è del linguaggio poetico. Naturalmente si tratta di una concettualità diversa da quella del linguaggio della filosofìa, di una concettualità più rarefatta, di una concettualità sonora, paradossalmente potremmo dire pre-verbale. Mi è capitato di leggere due righe di una lettera molto bella che Caproni scrisse a un amico. Parlando a questo amico di un molto adagio di un Quartetto di Beethoven, Caproni scrive che quello è pensiero puro, senza neanche la contaminazione delle parole.(...)Ecco, onestamente, se io leggo oggi un saggio di filosofia, quasi sempre sono deluso; i libri di filosofìa che trovi oggi non mantengono quasi mai quello che promettono(...) Io non mi sento da questi saggi interrogato come dai versi, dai migliori versi, di Marina Mariani, ma potrei anche dire di Patrizia Cavalli, tanto per fare il nome di un altro poeta. In una poesia molto bella, che poi leggeremo, dedicata al filosofo John Dewey, Marina parla di dedicarci a pensare. Forse tutti dovremmo sentirci idealmente in pensione, come viene suggerito dalla poesia, in cui si dice che Dewey quando andò in pensione scrisse i suoi libri più importanti.


Marina Mariani legge:

Mr. John Dewey,
professore emerito
alle università
di Chicago e New York,

quando fu giubilato
(cioè quando andò in pensione)
si senti liberato
dal peso del lavoro
come me, come te.

E allora scrisse
un libro anzi due o tre
volumoni
e raccontava
spiegava controllava
confrontava ci ritornava
su:
"il pensiero è strumento
per fare. Chi non fa
non conosce, non sa ".

Questo scriveva quel signore
americano
dopo la giubilazione
(cioè quando andò in pensione
e grazie a Dio smise di
lavorare
di sperimentare
e di provare, e potè
senza più distrazioni
dedicarsi a pensare)

Come dicevo prima, questa poesia quasi ci fa pensare che dovremmo tutti sentirci idealmente in pensione, liberi dagli obblighi, dalle scadenze professionali, per poterci dedicare all'attività intellettuale disinteressata. In questi versi, ma anche in altri, si precisa quasi una metodologia del pensare. D' altra parte, la stessa Mariani intende schivare da sé tutta la tradizione un po' retorica del bel verso, della bella pagina: c'è una poesia che dice: i miei versi è bene che zoppichino un pò . Questo è un primo aspetto. Un secondo aspetto riguarda l'essere questi versi una specie di preparazione alla morte. Voi sapete che c'è una tradizione filosofica molto autorevole che ritiene che pensare è sempre pensare alla morte. Questa tradizione nasce con Platone, poi passa per Montaigne, arriva fino a Tolstoi... Alcuni non si riconoscono in questa tradizione, altrettanto autorevoli: per Spinoza non era così.
Io tendo invece a riconoscermi in questo filone, credo che pensare sia fondamentalmente pensare alla morte, e i versi di M.M. mi sembra che funzionino perfettamente come una specie di diario e viatico, poetico-esistenziale, che si possano leggere come una specie di "Istruzioni per l'uso" dell' esistenza. Infatti, a ben vedere, sono pieni di prescrizioni, sono pieni di precetti, di esortazioni, e probabilmente si possono riassumere, tutte queste prescrizioni, in un'unica prescrizione: di non autoingannarsi, di non autoilludersi, di resistere a tutte le tentazioni , come abbiamo visto, le tentazioni del pensiero, che mirano a consolare un po' troppo facilmente. (...).
C’è un’altra poesia, tratta dal Gioco delle costruzioni:



Forse nessun cerchio è veramente un cerchio
nemmeno il più perfezionato dei compassi qui
può tracciare un cerchio perfetto

ma il cerchio sa
di essere cerchio quel tanto che è concesso
dall’umana geometria

e va tra le altre figure
col suo umano vestito di cerchio


Ecco: precetti, contro le tentazioni del pensiero, la tentazione di autoilludersi, ma soprattutto contro l’ illusione di poter chiudere qualcosa.
Credo che questo sia un aspetto decisivo della poesia di M.M. La morte resta sempre aperta, nel bene e nel male, la morte non si lascia chiudere, non si lascia archiviare o catalogare, o sistemare. E forse proprio per questo è difficile accoglierla: a noi ci va di chiudere qualcosa. La morte che tutto dissigilla – questo è un verso di Sereni: Sereni immagina la sua propria morte, lui entra a casa e c’è lui morto. La morte che tutto dissigilla, dice Sereni, e forse riecheggia una famosa terzina del Paradiso dantesco, dell’ultimo canto del Paradiso: così la neve al sol si dissigilla / così al vento tra le foglie lievi / si perdea la sentenza di Sibilla. E anche lì, la morte dissigilla, tiene aperto, nel bene e nel male, non ci permette di chiudere.
Come nella figura del cerchio, che ritorna in questi versi. Il cerchio chiude, e l’unico cerchio che possiamo tollerare è un cerchio imperfetto, che chiude in un modo imperfetto.

Vorrei adesso occuparmi in particolare delle poesie comprese in questo bel libro, I Quartieri dell’anima – Enrico Benaglia in viaggio con i poeti
Le poesie di Marina Mariani sono cinque, mi pare. Diciamo subito che quattro poesie su cinque – facciamo un po’di esame metrico, stilistico – cominciano con un bell’endecasillabo, che dà una grande misura di cantabilità. Ne leggo intanto due. La prima è questa:

Le vecchie sulle panchine, d’estate,
sono tutte pettinate,
lavate
e stirate.

Tengono dritta in grembo la borsetta nera
con la cerniera, emblema
di rispettabilità.

Parlano – chi lo sa –
delle figlie che stanno al mare,
del figlio che a Ferragosto
le porterà al paese;

un autobus con lo sbuffo nero
ombra la camicetta,
la pelle trasparente,
i capelli bianchi raccolti.

Sospirano: che croce
la città.


Ve ne leggo un’altra perché mi serve per introdurre un altro ragionamento.


Il vecchio esita quando posa
il piede sulla soglia, nell’uscire di casa:
lo chiama indietro una voce
(che non c’è) querula, che gli ricorda
- e lo spaventa – quello che si deve fare
dentro la casa, per star sicuri
quando si è fuori;

ma fuori intanto - quante figure
di qua, di là, quante strade
se si abita in una piazza, quante mattine
se si vive in una città
dotata di clima mite, quante mattine,
di qua, di là…

Mentre esita, si rimprovera
l’esitazione: tempo ce n’è poco,
meglio rischiare adesso che in gioventù;
per quanto tempo ancora si potrà
attraversare la piazza, ce lo lasceranno fare
quelli che corrono e non vogliono vedere
strisce bianche, canizie…


Intanto, avrete notato il gioco di rime: sono rime baciate a volte, o alternate, a volte sono rime imperfette, assonanze, consonanze, allitterazioni: mi viene in mente l’inizio molto bello di un’altra poesia: Agli anziani bisogna mostrarsi contenti. / Tanto non possono farci niente. Davvero viene voglia di impararle a memoria, queste poesie, di cantarsele un po’ dentro, come le nuove generazioni fanno con i versi di De Andrè, o di Battisti-Mogol, perfino.
La poesia è da sempre anche questo, un viatico d’esistenza che accompagna i nostri momenti più gioiosi, o più cupi eccetera. Ma, dicevo, m’interessa questa immagine: il vecchio esita – quando posa. Mi ha fatto venire in mente dei versi di Emily Dickinson su cui si sofferma molto il critico Harold Bloom nel suo ultimo libro, molto bello, sulla difesa delle ragioni della lettura. I versi di Emily Dickinson dicono: Ciò mi conferiva l’andatura precaria / che alcuni chiamano esperienza . Pensate, per Emily Dickinson l’andatura precaria coincide con l’esperienza stessa.
Secondo Bloom, sapete, questo critico americano, la Dickinson questo concetto lo riprende da Emerson, lo riprende da Montaigne che abbiamo già citato. Senza intimidire troppo Marina con questi nomi sommi, con queste analogie, vorrei sottolineare il fatto che quest’andatura, che si ritrova in molte poesie, a volte si ritrova perfino nella metrica; quest’andatura precaria, rallentata, incerta, esitante, permette proprio l’esperienza personale del mondo. Fate la controprova: se si ha un’andatura sicura, troppo sicura, ferma, convinta, convinta soprattutto di sapere cosa ci aspetta, ebbene, non si può fare esperienza; si finisce col camminare nell’irrealtà. Questo è uno dei contenuti della poesia della Mariani, sia a livello tematico, con questa immagine che ritorna d’incertezza, di esitazione, sia nella versificazione.

Poi, un altro concetto, sempre tratto dalla poesia che vi ho letto. In questa poesia si dice: quante strade / se si abita in una piazza / quante mattine / se si abita in una città. Questi versi mi hanno colpito molto, perché ho idea che nella poesia di Marina, accanto al pudore (c’è anche un estremo pudore, nella sua poesia) c’è un’adesione al mondo e al presente che si traduce nella musicalità, che a volte è squillante, a volte è abbassata, più dimessa, ma
sempre percepibile. Io penso, insomma, che nella poesia di M.M. c’è come un vitalismo: accanto all’esitazione, al pudore, c’è anche un vitalismo che è appena trattenuto, c’è la nostalgia della vita come eccesso: la vita come sovrabbondanza di mattine, come sovrabbondanza di esperienze, di odori, di sensazioni… Come sovrabbondanza di rischi, di possibilità di rischio. Il suo è un dionisiaco appena velato, appena dissimulato, ma c’è l’adesione al dionisiaco, probabilmente legata anche, chissà, al Meridione. La vita, quindi:
quella stessa vita che, ci viene detto in una di queste poesie, si può anche smarrire in un momento di distrazione. C’è una poesia molto bella, nella parte dedicata a Caproni, che si chiama “La vita”: Eppure c’era, c’era! / Non ti disperare. / Da una distrazione / all’altra, l’avrai buttata / nella pattumiera. La vita, quindi, che uno può anche perdere o gettare via in un momento di distrazione, ma che certo non ammette di essere bene amministrata, non ammette di essere gestita oculatamente, no! Siamo in un’altra dimensione.
Alle poesie dedicate a Caproni Marina premette queste parole: Come in ogni lettera scritta da un sottoposto, ho imitato lo stile del destinatario. Come in ogni lettera inviata a qualcuno che è lontano, ho dato qualche notizia di qua, da questa parte. Come in ogni lettera nata dalla fiducia, ho parlato anche di me. Questa è una premessa molto umile, ma forse anche presuntuosa, come sono i poeti; forse Marina si ritiene una interlocutrice privilegiata di Caproni. Sono poesie molto brevi: pensate soprattutto all’ultimo Caproni, quello epigrammatico, che riassume spesso in pochi versi di poche sillabe quello che ha da dire. C’è per esempio una poesia che credo ispirata dalla Mostra sul Trash, curata da Lea Vergine, infatti si chiama “Trash – Quando la spazzatura diventa arte”: Se guardi / molto / tra tante bambole / rotte / appare un volto. Anche qui, c’è un invito all’attenzione: se guardi molto, appare un volto. Occorre guardare molto, e a lungo. Certo, un volto significante non si rivela così, senza un qualche impegno,una fatica dello sguardo.
Prima di continuare, mi piacerebbe che Marina leggesse le tre poesie di questo libro, che comprende i quadri di Benaglia, che io non ho letto.

Rumori, stipendi

Questi ragazzi con le motorette
bisognerebbe stipendiarli;
e che poi si riunissero in sindacati
per difendere i loro diritti.

Se gli diamo uno stipendio
c’è la ragione.
Il rumore ha un suo preciso valore nella società.

(Siamo convinti tutti
che nessuno sopravviverebbe
al silenzio).


* * *


Improvvisamente la città si è popolata di figli
Ragazzi con stendardi o giocattoli si spostano impavidi
di quartiere in quartiere – attraversano i punti verdi
approntati per loro dall’Assessore al Comune

Su noi che giustamente abbiamo scelto il Quartiere Umbertino
si riflette la loro esuberanza – quando ci raggiunge
è luce fredda ma sicura di stelle

Senza malinconia afferriamo il quotidiano bastone
percorriamo strade assolate fingendo andatura leggera
Se camminiamo possiamo incontrarli

Ci mettiamo in parentesi – la traiettoria
di stella moventesi agostana sta per dissolversi
- i figli che vanno lo sanno bene, ma vedendoci
attraversare la piazza assolata ci chiedono
con uno sguardo breve una pesca, una mela,
una fetta di cocomero


* * *


Come attraversare questa piazza
finalmente assolata,
mentre il passo mette in fuga i colombi
verso l’alto

Da lontano, ma avvicinandosi
pericolosamente,
a stracci i volti,
fratturate le voci,
da ogni angolo, insieme
e discordanti
esprimono comandi
clamorosi sopra le sirene
dei clacson

Insomma, da quello che avete sentito, sicuramente avete avuto la percezione del mondo di Marina. Diciamo che è un mondo narrativamente denso, è un mondo fatto di amici, e amiche, di persone anziane, e di adolescenti, poi ci sono i figli, poi ci sono le zie; è un mondo in cui accanto alla paura - c’è anche una paura dell’esterno, una paura-attrazione verso l’esterno – accanto alla paura e alle ansie, direi che prevale una modalità espressiva e comunicativa gentile, umana, perfino civile. Forse questa vi sembrerà una considerazione un po’ peregrina, ma si può perfino leggere questo Canzoniere come un esempio di poesia civile, nel senso che questa poesia, anche se non esplicitamente, non intenzionalmente, contenga un qualche modello di rapporti tra le persone: un’utopia, un modello di socialità, di rapporti tra le persone, appunto, gentile, che può essere anche drammatico (le voci fratturate, ecc.) , ma prevale questa modalità: un modello gentile. In questo senso, che è un po’ particolare, si può parlare di poesia civile.
Nella poesia Il vecchio esita quando posa / il piede sulla soglia, nell’uscire di casa / (tra l’altro, sentite questo gioco di consonanze, di allitterazioni - qui vorrei citare Caproni, per il quale la rima non era davvero un fatto ornamentale, ma è una struttura portante, anche dal punto di vista conoscitivo). Anche in quella poesia, certo, c’è la paura del fuori; c’è la voce – immaginaria – che gli dice quello che si deve fare per star sicuri quando si è fuori, quindi il mondo esterno è percepito anche come minaccia, però c’è una specie di allegra spavalderia, si dice che è meglio rischiare da vecchi che da giovani; certo c’è anche il nemico, colui che ignora le strisce bianche per terra, che ignora la canizie dei vegliardi; però poi questo nemico viene rappresentato in un modo anche giocoso. L’impressione insomma è che la Mariani quando scrive i suoi versi fondamentalmente anche si diverte, gioca, crea un mondo che assomiglia a quello reale. Tutta la letteratura è creazione di modelli del mondo, nella letteratura non c’è il mondo, ci sono tanti modelli del mondo che hanno poi rapporti con il mondo, con i fatti – ecco, il mondo che si crea Marina assomiglia molto a quello reale, non è affatto edulcorato; ci sono le voci fratturate, c’è la vita e la morte, e le paure, però è anche un mondo fondamentalmente colorato. Prevale questo senso, appunto, delle tante mattine, è un mondo giocoso in cui non ci si annoia mai e dove il pericolo, che pure è incombente, deve poter essere aggirato, magari attraverso una rima, una rima può essere anche un piccolo amuleto.

Vorrei leggere un’altra poesia, è la prima della raccolta Il gioco delle costruzioni:

Dolce amica vecchiaia non mi tradire
proprio adesso che sto per raggiungerti – non ti perdere
nella nebbia fumosa delle pianure fra i pioppi
non mi lasciare in mezzo all’autostrada
chiusa nell’Autobianchi A112.

Vado e vengo e ti desidero – ti aspetto.
Le cose se ne andranno, e le persone che invitano
a banchetti spregevoli o idioti si fermeranno in un gesto
come statue di cera. Finalmente la vita avrà un ritmo
regolare voluto da me. Il grande fiume
delle automobili e delle ideologie continuerà a scorrere
parte del panorama lontano; ma la finestra si aprirà sui limoni
piantati da me e cresciuti per vigore naturale.

Si tratterà di uscire evitando la pioggia; di rientrare
prima che faccia buio; di scegliere gli indumenti giusti.

Si tratterà finalmente di essere estranei quel tanto
che necessita – senza rimorsi.


Questa secondo me è una poesia che riassume molto bene l’intera poetica della Mariani, forse in tutti gli aspetti di cui abbiamo parlato fin qui.



La serata continua con letture di Marina Mariani , domande del pubblico, interventi di Alida Maria Sessa. Nel corso della conversazione, Filippo La Porta precisa:

Insomma, la mia impressione è questa: di fronte alla realtà che ha davanti, Marina Mariani non rinuncia a interrogarsi, a interrogare gli altri, non ha paura di fare domande troppo elementari, troppo banali; qualche volta si perde anche lei – come in quella poesia degli anni Settanta, quando ti rechi a Santa Maria della Pietà, e cominci a chiedere, non sai bene dove ti trovi – ma anche quando si perde, non rinuncia a riflettere, a descrivere quello che ha davanti, a osservare. E anche quando dispensa consigli utilissimi, quelle che ho chiamato istruzioni per l’uso dell’esistenza, mantiene sempre quell’andatura precaria che, appunto, coincide con l’esperienza stessa.